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Le cose mi guardano
prima ancora che io le tocchi.
Hanno occhi lisci,
di plastica paziente,
e mi chiamano per nome
senza sapere chi sono.
Cammino sopra pavimenti
di desideri usati,
scivolano sotto i passi
come promesse
lucidate a freddo.
Le vetrine respirano,
espirano volti migliori del mio,
li appendono al vetro
come abiti senza corpo.
Il tempo qui non passa:
si accumula.
Si impila negli angoli,
diventa polvere numerata,
conto alla rovescia
senza una fine vera.
Le mani stringono oggetti
per non tremare,
ma più afferro
più mi svuoto,
come una tasca bucata
che finge di essere piena.
C’è un cuore,
da qualche parte,
incastrato tra due ricevute,
batte piano
per non farsi notare.
Ogni tanto prova a dire
che non tutto pesa
allo stesso modo,
ma la sua voce
non ha codice a barre.
E io resto qui,
in questo mondo materiale,
a chiedermi se sono io
a possedere le cose
o se sono loro
ad aver imparato
a tenermi.